Sono 245 i giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023, secondo i dati delle organizzazioni internazionali per la libertà di stampa. Un numero impressionante, che rende questo conflitto il più sanguinoso per la stampa nella storia contemporanea. Una strage silenziosa che ha tolto la vita a fotoreporter, inviati locali, cameraman, cronisti indipendenti, spesso caduti mentre documentavano ospedali colpiti, strade bombardate, corpi senza nome.
E allora la domanda non è più solo simbolica: non è forse giunto il momento di candidare i giornalisti uccisi a Gaza – e con loro tutti coloro che rischiano la vita per raccontare il genocidio – al Premio Nobel per la Pace?
Il prezzo della verità
Il giornalismo, in tempi di guerra, non è mai neutrale. Non lo è perché è chiamato a una missione primaria: testimoniare. In un conflitto dove propaganda e fake news si mescolano ai comunicati militari, chi impugna una telecamera o un taccuino in mezzo alle macerie diventa l’ultimo baluardo della verità.
I giornalisti di Gaza non hanno smesso di raccontare, nemmeno quando le bombe cadevano sulle loro case, nemmeno quando le famiglie venivano colpite. Molti di loro sono morti in diretta, davanti agli occhi del mondo. Le immagini dei corpi dei reporter, ancora con la pettorina “PRESS”, sono diventate il simbolo di una resistenza civile che non ha eguali.
Un Nobel come atto politico
Conferire il Nobel per la Pace a questi cronisti caduti significherebbe trasformare la loro morte in un atto politico universale: un riconoscimento al diritto di informare e di essere informati, sancito dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Non sarebbe la prima volta: nel 2021 il Nobel fu assegnato a Maria Ressa e Dmitry Muratov per il loro coraggio nel difendere la libertà di stampa. Ma mai il premio è stato inteso come tributo collettivo a chi ha perso la vita raccontando una guerra. Sarebbe un segnale forte, una memoria attiva che obbligherebbe la comunità internazionale a dire: “non dimenticheremo chi ha scritto la verità con il proprio sangue”.
Il genocidio sotto i riflettori
Chiamare le cose col loro nome: genocidio. Molti osservatori, giuristi e accademici hanno definito le violenze di Gaza in questi termini. Ed è proprio grazie al lavoro dei giornalisti sul campo se la parola “genocidio” ha potuto uscire dalle aule universitarie ed entrare nelle case degli spettatori.
Senza di loro, senza i loro racconti e le immagini trasmesse, Gaza resterebbe una notizia lontana, filtrata dai comunicati militari. Con loro, invece, il dolore diventa condiviso, la coscienza collettiva interpellata.
Un premio alla libertà, non solo alla memoria
Un Nobel per i giornalisti di Gaza non sarebbe un gesto pietistico, ma un atto di giustizia storica.
Un riconoscimento a chi, con il proprio lavoro, ha difeso la libertà di stampa e la dignità umana in un contesto in cui la censura e la violenza avrebbero voluto cancellare tutto.
E sarebbe anche un monito: ricordare che oggi, più che mai, i reporter sono bersagli. Che senza informazione libera non esiste pace possibile, perché la pace nasce dalla verità e dalla giustizia.