La seduta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di ieri ha rappresentato uno dei momenti più tesi dall’inizio della guerra a Gaza. Quattordici membri su quindici hanno votato una risoluzione che condanna la situazione umanitaria nella Striscia come “una crisi interamente determinata dall’uomo”. Il dito è puntato contro Israele, accusato di aver ostacolato gli aiuti e imposto restrizioni tali da ridurre la popolazione civile alla fame.
La risoluzione chiede tre punti chiari: un cessate il fuoco immediato, il rilascio degli ostaggi e la rimozione di ogni ostacolo agli aiuti umanitari. Tutti i Paesi membri hanno dato il loro sostegno, tranne gli Stati Uniti, che si sono astenuti: un gesto che ha fatto discutere.
L’ambasciatrice americana Dorothy Shea ha spiegato che Washington non contesta la gravità della crisi, ma mette in dubbio i numeri presentati dalle agenzie Onu. Una posizione che rivela l’equilibrismo della Casa Bianca: da un lato il sostegno a Israele, dall’altro la necessità di non apparire indifferenti davanti a una catastrofe umanitaria riconosciuta a livello globale.
La risoluzione ha già sollevato reazioni: il governo israeliano ha definito le conclusioni “faziose” e ha chiesto una revisione del rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification), minacciando il blocco dei finanziamenti se le stime non saranno corrette. Ma il messaggio del Palazzo di Vetro resta inequivocabile: la fame a Gaza non è una fatalità, bensì il risultato diretto di scelte politiche e militari.